lunedì 28 maggio 2007

Ibadeth

Ibadeth
L’esigenza di cantare l’ho avvertita sin dalla più verde età: fin da quando, tenerissima gattina rosso-nera di nemmeno tre settimane, fui esposta, in una fredda mattinata novembrina, in una cesta bordata di fiocchi scarlatti, che troneggiava sopra un tavolo centrale della "Pizzeria ternana" di Marsciano, e in quel momento entrò la Mamma, infreddolita, affamata, avvolta in un giaccone rosa fucsia e reclamante una porzione di pesce fritto. Mentre appallottolava la carta oleata e si guardava intorno alla ricerca di un cestino (la Mamma è disordinatissima in casa, ma fuori è di una compitezza preoccupante), il suo sguardo cadde sulla cesta e mi adocchiò. Debbo dire il vero: ora ho una grande passione per la Mamma, ma in quel momento tutto volevo meno che esser tirata fuori di lì, per cui quando compresi che aveva deciso di portarmi via dalla cesta e dai miei fratelli, iniziai a produrmi in canti di protesta appresi dai Disoccupati Organizzati di Napoli (nella fattispecie quello che suona
"Me vuo’ caccià de casa,/ l’anema ‘e chi t’ha muorto…").
Niente. Con sovrano sprezzo dei miei diritti costituzionali, fui stipata in una scatola che aveva contenuto lattine di Coca-Cola (COCA-COLA!!!!), caricata su di una sfranta Renault 4 e traslata in un borgo vicino, dove la Mamma, che ancora non conviveva con lo Zio Panda, aveva trovato provvisorio ricetto (ci visse per quattro anni). Per tutto il viaggio cantai a squarciagola inni della resistenza albanese appresi da Ibadeth, ma la Mamma non parve, lì per lì, apprezzare la mia cultura nel campo del folk internazionale.
Come vedete, pertanto, ho sempre avuto inclinazione per il bel canto. L’idea di fondare un gruppo mi è venuta però mentre stavo fumando uno spinello con Ibadeth nell’orto della Mamma. La mia verde amica, quando aveva visto la Mamma che mi caricava sull’inqualificabile vetturetta francese, era corsa fuori dalla "Pizzeria Ternana" e si era appesa al paraurti posteriore del veicolo; indi era salita per la grondaia fino al primo piano della palazzina dove la Mamma abitava e si era allogata nella terrazza, in mezzo a un cespuglio di ruta graveolens (ignoro che uso pensasse di farne la Mamma, penso che fosse solo un’espressione del suo periodo da erborista).
L’idea cominciò ad assumere contorni definiti (e vi assicuro che non è facile, in mezzo al fumo del Libano Oro), Ibadeth si fece stampare un centinaio di volantini da un suo cugino che frequentava una scuola del borgo ed andò ad affiggerli nelle bacheche dei pub della Media Valle del Tevere; in primis alla "Pizzeria Ternana", of course. La pizzeria, per coloro che vaghezza pungesse di andarci a desinare, esiste ancora, sebbene abbia cambiato gestione: ma ci si mangia bene ugualmente! Chiusa la parentesi pubblicitaria.
Dapprima risposero al nostro appello quelli che poi sarebbero diventati "Gli Otocioni", e che vi presenterò in un secondo momento (o terzo? o financo quarto? Ancora non vi ho nemmeno parlato dei pensionanti magrebini! E neppure della storia d’amore fra Ibadeth, ramarra di Elbasan, e Tarquinius Lalibela, suricate della Terra di Gondwana… Né del Bimbo e della Bimba, effimeri personaggi inspiegabilmente cari alla Mamma e allo Zio Panda…).
Una alla volta, come diceva Rocco Siffredi.

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