Prostituzione?
No, massa di lettori borghesi (volevo apostrofarvi con la dicitura "lettorazzi del cazzissimo", come fece una volta il povero Andrea Pazienza, Dio lo riposi, ma Iris qui mormora che sarebbe poco elegante; già non approva che vi qualifichi borghesi, ma non sa come opporsi alla cosa); no, non crediate che il diario cominci a lambire il pornografico. E’ soltanto l’accusa che io e Aristogìtone ci siamo sentiti fare allorquando, visto che con il gruppo rock non avevamo nemmeno i soldi per far cantare un cieco (e qui Filostrato si è imbufalito), abbiamo deciso di ripiegare sul liscio, con sconfinamenti nel nazional-popolare (della serie: "Marilena", "Romagna mia", "E’ la mia gente", "Lo spazzacamino" e via scadendo). Iris qui sussurra che faccio eccessivo uso di parentesi. Embè? Problemi?
Con il liscio, dicevo, riusciamo a racimolare qualcosa; col gruppo rock stiamo ancora alla fase suono-nello-scantinato-bevo-e-mi-faccio-le-canne (veramente quelle ce le facciamo a prescindere, anche con la band del liscio, ma tiremm’innanz). Con "I Licaoni" facciamo le sagre, le feste paesane, i matrimoni, Halloween, il Capodanno alla Sgurgola e cose simili; col gruppo rock, che si fregia del nome "Gli Otocioni", al massimo ci facciamo i "rave party" in qualche capannone dismesso della Bovisa… Da lì l’accusa di prostituzione: svendita del nostro talento (?) nel bieco circuito delle coppie reumatiche sessantenni, della piadina col prosciutto e dei tortelli alla maremmana.
Può anche darsi, non dico di no. Ma chi si avvantaggerà della nostra musica, delle nostre idee e della nostra abilità se non ci sente nessuno?
Anni fa, con gli Otocioni eravamo andati ad Amsterdam, oltre che per racimolare fumo a buon mercato, convinti che lì avremmo potuto sfondare, farci conoscere, entrare nel circuito dei gruppi rock alternativi; sì, col cavolo, ci siamo sparpagliati per tutta la città a cercare lavori d’infimo livello per poterci pagare la fetida pensione, il puzzolentissimo cacio locale, la birra e il fumo. Una dieta, direi, consigliata da tutte le riviste di medicina. Sia come sia, io avevo trovato lavoro come ballerina in un ristorante indiano: vestita da danzatrice del ventre con paillettes e lustrini, dovevo dimenarmi ed agitare il culo (e il mio è sontuoso) al ritmo di nenie e percussioni orientaleggianti, condite da musica etnica generica, tanto sanno una sega gli olandesi se era musica indiana, pakistana o africana, se le ballerine erano arabe, messicane, turche… o ternane, come nel caso mio. Bon, una sera, dopo aver mangiato una pentola intera di biryiani di pollo e peperoni ripieni al curry, stavo esibendomi indecorosamente fra i tavoli del ristorante "Taj Mahal" (originali!), quando la Suba, la cameriera più incapace del locale, spalanca repentinamente la porta del congelatore e ne esce una zaffata gelida che mi arriva diretta sulla pancia. Detto fatto, mi si blocca la digestione, si annunciano crampi lancinanti e non solo quelli, in preda ai dolori esco ancheggiando voluttuosamente dalla sala da pranzo e mi precipito al bagno… appena in tempo. Seduta sul trono, in mezzo agli spazzoloni, alle scatole piene di detersivi e alle balle di carta igienica incellofanate, con il deodorante di falso pino da quattro soldi e l’odore di pesce fritto che entrava dalla griglia sul muro, con lo stanzino vicino da cui qualcuno cantava a squarciagola "Si a tu ventana llega una palooooomaaaaa/ tratala con carino que es mi persooooonaaaaaa!….", ebbene, come dice spesso la Mamma, ho avuto un’illuminazione interiore.
"Che cavolo ci faccio, qua?"
Veramente non è che abbia proprio detto "cavolo", ma la Iris qui insiste per mantenere lo stile.
No, massa di lettori borghesi (volevo apostrofarvi con la dicitura "lettorazzi del cazzissimo", come fece una volta il povero Andrea Pazienza, Dio lo riposi, ma Iris qui mormora che sarebbe poco elegante; già non approva che vi qualifichi borghesi, ma non sa come opporsi alla cosa); no, non crediate che il diario cominci a lambire il pornografico. E’ soltanto l’accusa che io e Aristogìtone ci siamo sentiti fare allorquando, visto che con il gruppo rock non avevamo nemmeno i soldi per far cantare un cieco (e qui Filostrato si è imbufalito), abbiamo deciso di ripiegare sul liscio, con sconfinamenti nel nazional-popolare (della serie: "Marilena", "Romagna mia", "E’ la mia gente", "Lo spazzacamino" e via scadendo). Iris qui sussurra che faccio eccessivo uso di parentesi. Embè? Problemi?
Con il liscio, dicevo, riusciamo a racimolare qualcosa; col gruppo rock stiamo ancora alla fase suono-nello-scantinato-bevo-e-mi-faccio-le-canne (veramente quelle ce le facciamo a prescindere, anche con la band del liscio, ma tiremm’innanz). Con "I Licaoni" facciamo le sagre, le feste paesane, i matrimoni, Halloween, il Capodanno alla Sgurgola e cose simili; col gruppo rock, che si fregia del nome "Gli Otocioni", al massimo ci facciamo i "rave party" in qualche capannone dismesso della Bovisa… Da lì l’accusa di prostituzione: svendita del nostro talento (?) nel bieco circuito delle coppie reumatiche sessantenni, della piadina col prosciutto e dei tortelli alla maremmana.
Può anche darsi, non dico di no. Ma chi si avvantaggerà della nostra musica, delle nostre idee e della nostra abilità se non ci sente nessuno?
Anni fa, con gli Otocioni eravamo andati ad Amsterdam, oltre che per racimolare fumo a buon mercato, convinti che lì avremmo potuto sfondare, farci conoscere, entrare nel circuito dei gruppi rock alternativi; sì, col cavolo, ci siamo sparpagliati per tutta la città a cercare lavori d’infimo livello per poterci pagare la fetida pensione, il puzzolentissimo cacio locale, la birra e il fumo. Una dieta, direi, consigliata da tutte le riviste di medicina. Sia come sia, io avevo trovato lavoro come ballerina in un ristorante indiano: vestita da danzatrice del ventre con paillettes e lustrini, dovevo dimenarmi ed agitare il culo (e il mio è sontuoso) al ritmo di nenie e percussioni orientaleggianti, condite da musica etnica generica, tanto sanno una sega gli olandesi se era musica indiana, pakistana o africana, se le ballerine erano arabe, messicane, turche… o ternane, come nel caso mio. Bon, una sera, dopo aver mangiato una pentola intera di biryiani di pollo e peperoni ripieni al curry, stavo esibendomi indecorosamente fra i tavoli del ristorante "Taj Mahal" (originali!), quando la Suba, la cameriera più incapace del locale, spalanca repentinamente la porta del congelatore e ne esce una zaffata gelida che mi arriva diretta sulla pancia. Detto fatto, mi si blocca la digestione, si annunciano crampi lancinanti e non solo quelli, in preda ai dolori esco ancheggiando voluttuosamente dalla sala da pranzo e mi precipito al bagno… appena in tempo. Seduta sul trono, in mezzo agli spazzoloni, alle scatole piene di detersivi e alle balle di carta igienica incellofanate, con il deodorante di falso pino da quattro soldi e l’odore di pesce fritto che entrava dalla griglia sul muro, con lo stanzino vicino da cui qualcuno cantava a squarciagola "Si a tu ventana llega una palooooomaaaaa/ tratala con carino que es mi persooooonaaaaaa!….", ebbene, come dice spesso la Mamma, ho avuto un’illuminazione interiore.
"Che cavolo ci faccio, qua?"
Veramente non è che abbia proprio detto "cavolo", ma la Iris qui insiste per mantenere lo stile.
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