giovedì 29 novembre 2007

Madama Grazia e la grande inaugurazione della Food Farm

Che vuol dire SMS?
Sabato 1° dicembre e domenica 2 dicembre finalmente apre la Food Farm (www.foodfarm.it). Era ora, direi: saranno due mesi che Baedyn va di lungo con questa storia e ci dà il tormento a tutti quanti.
Baedyn il vombato, come sapete, lavorerà lì: è stato – secondo me insensatamente – assunto dalla signora Grazia, la proprietaria dell’azienda, in qualità di factotum (e anche di attrazione per i futuri clienti, sospetto. Dove mai s'è visto un vombato che incarta file di salsicce?). Questo fine settimana ci sarà l’inaugurazione, dalle quattro e mezza in poi: sarà offerto un rinfresco che, se Madama Grazia terrà fede alla sua fama di cuoca, sarà sublime. Mio fratello Martino, il rabbino, scuote la testa scettico, giacché, essendo un ebreo ovviamente osservante, non vede di buon occhio la consumazione dei derivati di un animale impuro quale il maiale; e all’Agricola Mariotti (la casa-madre della Food Farm) allevano per l'appunto suini a ciclo chiuso (ovvero li nutrono coi sani prodotti dell’azienda) e ne fanno gustosi prosciutti, salsicce, capocolli, coppe e via estasiandosi. Ca va sans dire: i Licaoni del Liscio suoneranno all’inaugurazione e Maysa la lince si esibirà nella danza del doppio bastone… sempre che, tanto bene per il fine-settimana, non decida di essere musulmana. In tal caso avanzerà le stesse obiezioni di Martino alla consumazione del maiale e ciao.
Ieri il pomeriggio è stato comico perché Baedyn è stato incaricato da Madama Grazia di pubblicizzare l’inaugurazione del negozio via SMS. Quello scemo è stato tutta la sera chiuso in bagno a pestare sui tasti del cellulare (sembrava di stare nella sala giochi della Neuro); ma il top del delirio si è raggiunto a sentire lui e Madama Grazia che, per telefono, componevano il suggestivo testo del messaggio. "Sabato 1 dicembre e domenica 2 dicembre inaugura la Food Farm, negozio di prelibatezze umbre…" e Baedyn squittiva "Scriviamoci che offriremo dolci!" "Ma sei scemo, i dolci per ora non ci abbiamo la licenza!" nitriva Madama Grazia in fibrillazione atriale. "Scriviamo che i salami sono di produzione propria!" "Sì, e anche che ci saranno giochi e svaghi!" ululava Baedyn. "E mettici anche che…" . Lo Zio Panda, passando accanto al telefono, ha bofonchiato che SMS significa "Short Message Service" (messaggi brevi) e non "Long and Interminable Pappardelle"…

martedì 20 novembre 2007

Lo sposalizio di Ibadeth


Ibadeth e Tarquinius
Ibadeth Hysa, dicevo, è la mia migliore amica. La Mamma è la Mamma, alla mia povera sorellina Iris ero (sono) molto affezionata, ma Ibadeth me la sono scelta io. Sì, lo so che non è una riflessione originale, ma non ho firmato un contratto per inventare nuove e rivoluzionarie teorie, le note musicali sette sono e sette resteranno…
L’ho conosciuta nell’orto dietro la "Pizzeria ternana". Era salita su un lavatoio che si trovava sotto una pergola, forse per stendersi a prendere il sole (è molto freddolosa) ed è stata adocchiata dalla donna di servizio la quale, presumo per semplice, tranquilla e limpida malvagità, l’ha colpita con uno straccio e l’ha buttata in un secchio pieno d’acqua che si trovava a fianco del lavatoio. Penso che intendesse lasciarla annegare, ma per fortuna il recipiente non era pieno e Ibadeth è riuscita a tenere la testa fuori dall’acqua… senza tuttavia riuscire a scalare le pareti del secchio. E’ rimasta lì per due giorni tenendo la capoccetta fuori dall’acqua putrida, fino a che non è arrivata la bambina Anna Laura, di anni otto, che ne ha avuto pietà e l’ha tirata fuori, portandola dentro la pizzeria, al caldo nella cesta con me ed i miei fratelli. Che non se la sono mangiata perché in quella fase lei era più grossa di loro; dopo, abbiamo fatto amicizia, ci siamo presentati… e, come dice Alice in Attraverso lo specchio, mica si può mangiare qualcuno a cui si è stati presentati!
Ibadeth viene da Elbasan, Albania, dove suonava il violino in un’orchestrina itinerante e scalcinata che, ad un certo punto, ha deciso di tassarsi, affittare un gommone e tentare l’espatrio attraverso l’Adriatico. Dopo tre giorni di mare in burrasca (Ibadeth comincia ad avere una certa qual avversione nei confronti dell’acqua, dolce o salata), sono sbarcati ad Ancona. Da lì la mia amica è salita su un TIR che trasportava polli e quando uno di questi ha tentato di mangiarsela, ha ritenuto opportuno effettuare il trasbordo verso uno che trasportava fibre ottiche nella zona del marscianese ed è così che è finita nell’orto retrostante la "Pizzeria Ternana".
Com’è che ha conosciuto Tarquinius?
Il merito è in parte il mio, perché una sera, trovando il telefono della pizzeria incustodito, ho chiamato l’Ufficio Informazioni e sono riuscita a farmi dare il numero della sua famiglia in Albania. Ho parlato con suo padre, che a Elbasan faceva il fornaio, ma che era rimasto senza lavoro, e l’ho convinto a venire in Italia, assicurandogli che avrei parlato con i proprietari della pizzeria, che cercavano per l’appunto un pizzaiolo, e che li avrei persuasi ad assumerlo. Il padre di Ibadeth acconsentì a venire a Marsciano nel giro di una quindicina di giorni.
Il giorno in cui sarebbe dovuto arrivare… Ibadeth ricevette una telefonata dal cellulare di suo padre, un apparecchio antiquato che lui aveva comperato al mercato nero a Tirana. Da quel che si poteva capire, era ad Antivari. A far cosa? si chiese perplessa Ibadeth. Due ore dopo, chiamò da Bari, ma Ibadeth non riuscì a captarne le parole e si ripromise, non appena il padre fosse arrivato, di regalargli un apparecchio nuovo… Qualche ora dopo, chiamò da Roma, ma le parve avesse una voce strana. Alle sette di sera, un SMS le annunciò che stava arrivando a Marsciano ed un’ora dopo, uno strano personaggio si presentò alla porta della "Pizzeria Ternana". Era un suricate, di nome Tarquinius Lalibela, abbigliato con un paio di calzoni grigi a righe dorate ed un bolero nero, una fisarmonica appesa al collo ed una valigia in cui (l’avrei scoperto dopo) teneva sgorbie e tavolette di legno per incidere i suoi lavori; e ci ha raccontato quella che, a mio parere, è la storia più triste del mondo. Il papà di Ibadeth non solo non era arrivato in Italia, ma non era manco partito: la sera prima era morto investito da un’auto in una stradina di campagna vicino Elbasan e lui lo aveva trovato abbandonato vicino ad un canale di scolo. Lo aveva seppellito ed era venuto fino in Italia per dare di persona la notizia alla figlia, non parendogli il caso che la poveretta la apprendesse per telefono o, peggio ancora, da qualche poliziotto albanese scocciato e demotivato (come pare siano un po' tutti).
Tarquinius era stato rifocillato da Francesca ed Anna Laura con grande quantità di sfincioni ed arancini siciliani, quindi aveva deciso di rimanere a Marsciano e farsi assumere per qualche mese nella locale fabbrica di mobili da giardino. Quando Ibadeth ed io ci siamo trasferite a casa della Mamma (prima a San Nicolò, poi a Perugia), Tarquinius si è fatto assumere presso un laboratorio artigianale di restauro nelle campagne del perugino e, dopo qualche mese, lui e Ibadeth si sono sposati.

Madonna, che razza di sposalizio è stato mai quello. I festeggiamenti sono durati tre giorni, la "Pizzeria Ternana" ha fornito il catering (pizze, arancini, sfincioni e cassate siciliane a sfascio), i "Licaoni del Liscio" e gli "Otocioni" hanno suonato ininterrottamente (e talvolta contemporaneamente, con un suggestivo effetto di straniamento); è venuta la Contessa che ha regalato agli sposi un arazzo medioevale raffigurante una scena infernale (un po’ inquietante, peraltro); è venuta l’Angiolina (la fidanzata ottantenne dell’avvocatone Sullivan) con le figliole; è venuto Michelangelo Er Pantegana, che si è sbronzato come una pigna e ha cantato una romanza a suo dire dedicata a lui, che cominciava con le parole "Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende..." (io non sono affatto sicura che le parole alludano a lui, ma tant’è, basta convincersi delle cose). Ramon Llull Costa i Llobera, il pondenco ibicenco marito della lince Maysa, era alla consolle e faceva il dj. La Iris, Dio la riposi, si era occupata dell’arredamento, l’Ingegnerone, il diavolo lo riposi, litigava col pipistrello Filòstrato per motivi politici e gli diceva che aveva una visione confusa della situazione socio-economica attuale. Martino e Baedyn, accompagnati da Ibadeth al violino, hanno cantato una canzone scritta da loro che s’intitolava "Zio Panda, trovaci un topo". Kevin Fontecupa ha offerto metadone a tutti (alla Contessa ha fatto un effettaccio). Tina la piovra si è esibita in una serie di cori alpini, accompagnata da mio fratello Edoardo e dalle altre sue personalità dissociate (Miciox X e Er Sogliola, che ha fatto amicizia con Michelangelo Er Pantegana e a un certo punto sono andati via insieme). Maysa, nella sua fase musulmana, si è esibita in una danza orientale coi sagath (cimbali) e col candelabro (e ha dato fuoco alle tende del ristorante, ma tutti hanno pensato che facesse parte della coreografia; in particolare la Contessa, in trip lisergico, ha biascicato che la scena era davvero psichedelica). Il licaone Aristogìtone tentava d’insegnare alla Bimba a suonare le percussioni sulla testa del Bimbo, mentre l’otocione Jerry serviva vassoi fumanti di ravioli "Foresta Nera" al ragù come dessert. La torta nuziale era stata offerta dalla gastronomia "Le cose buone" di Ferrara: si trattava di una tenerina ricoperta da crema Chantilly e amarene glassate, molto leggera e delicata. La cerimonia si è chiusa con il pezzo forte degli "Otocioni", un brano scritto da Jerry, un misto di raga e rock duro che ha mandato in visibilio gli astanti (o in crisi anafilattica, come insinua Edoardo, il solito malfidato), il cui testo riporto di seguito.
Tu non sai
(di Von Strohmenger-Gebratmaryam)

Tu non sai,
no, non ne sai niente, tu,
cosa pretendi di sapere, tu?
Non credo che tu sappia,
anzi, ne sono sicuro,
più che sicuro.
Credi forse d’ingannarmi?
Di sapere più di me, forse?
Ma non farmi ridere, suvvia.
Tu non sai,
direi che tu ignori,
direi che il mondo ti è sconosciuto,
che tutto ti è ignoto,
che tutto è nuovo, per te,
che vivi inconsapevole,
che intorno a te regna il disorientamento,
che rimani allibito di fronte alla realtà,
che non sai una sana mazza.
Tu non sai.

giovedì 15 novembre 2007

Gli Otocioni (seconda parte)

Il Ratto delle Sabine
Alla chitarra solista c’è un panda rosso, Fulgenzio Planciade Dixit. E’ nepalese e si è trasferito in Italia perché non ne poteva più degli italiani che venivano a visitare il Nepal per cercare la droga. Dice che qui a Perugia ne vede di meno. Di italiani, intendo. Non di droga. Quella, dice, è uguale.
Essendo omosessuale, convive saltuariamente con il suo rude fidanzato, Michelangelo Storace, per gli amici Er Pantegana, che possiede una bottega a Manciano Sabina in cui lavora il ferro battuto (fa le croci per i cimiteri e gli angeli per i cancelli dei medesimi, tanto per fare due risate). Il suo curioso soprannome deriva anche dal fatto che Michelangelo Storace è un ratto; la bottega di sua proprietà è infatti denominata "Il Ratto delle Sabine". Di musica non sa niente e niente vuole sapere: il suo unico hobby è il tiro al piattello.

Jerry e i "Foresta Nera"
Ho lasciato per ultimo il cantante solista perché è un otocione … ce ne voleva pure uno, nel gruppo, si chiama "Gli Otocioni", dopo tutto. Inoltre è il più tranquillo, che Iddio lo benedica. Si chiama Jerusalem Gebratmaryam (detto Jerry) e nella vita è il segretario ufficiale dell’associazione culturale "Vivere con lentezza".
Jerry proviene dall’Etiopia (è venuto col conestoga e ci ha messo sei anni e tre mesi). Il suo progetto è coniugare il rock con le raga indiane, cosa che lascia perplessi un po’ tutti quanti, ma lui è superiore a queste cose. Va matto per le frittate al dragoncello e per uno strano tipo di ravioli, detti i "Foresta Nera", che si fa venire da una gastronomia ferrarese che si fregia del titolo, semplice ma veritiero, de "Le cose buone". L’ha scoperta un’estate in cui era andato a Ferrara per il Festival dei Buskers. La bottega si trova in periferia, sulla via per Ravenna, ed è gestita da un amico dello Zio Panda e della Mamma (ecco come poi Jerry è approdato qui). Il nostro otocione ed i suoi amici vi erano entrati attirati dalle variopinte ciotole di cassata siciliana che il proprietario aveva in quel momento esposto in vetrina. Dopo un’orgia trimalcionica e collettiva a base di cassata, Jerry aveva adocchiato un vassoio di ravioli neri e aveva chiesto lumi; informato del fatto che trattavasi di ravioli al radicchio, denominati "Foresta Nera", aveva voluto assaggiarne un piatto con il ragù (e, dopo la cassata siciliana, ci voleva il coraggio suo). Folgorato come San Paolo sulla via di Damasco, aveva sottoscritto un abbonamento a vita con "Le cose buone" e si era anche offerto di esibirsi gratis nel locale ogniqualvolta Luca (il master of the house) lo avesse desiderato.

Hard Grind Bifolk Rock: gli Otocioni

Gli Otocioni
Gli Otocioni sono la mia più profonda ed autentica vocazione. … E’ la band per mantenere la quale ho ripiegato sul liscio più bieco Io sono una musicista rock, fondamentalmente; ma, come dice sempre lo Zio Panda, musicisti rock ne vendono a tazze come i lupini, laonde o puoi vantare conoscenze in altissimo loco (tipo il Papa è mio zio, Condoleezza mi ha fatto da madrina alla Cresima e via viscideggiando) oppure offri un prodotto assolutamente originale… Noi suoniamo un rock duro (di comprendonio, insinua mio fratello l’avvocato) ed abbiamo ideato un nuovo genere musicale, l’Hard Grind Folk Rock. Edoardo una volta è venuto a sentirci suonare (ci esibivamo in un pub presso il Tribunale) e, una tantum, ci ha apprezzato molto: ha detto che ci trovava molto più che folk, che eravamo doppiamente folk, e ha suggerito per il nostro genere la dicitura "bifolk". Il suggerimento ci è piaciuto e l’abbiamo subito inserito nel nostro manifesto (elaborato da Tarquinius Lalibela, lo sposo della mia amica Ibadeth; è lui l’artista, ancorché appartenga al versante licaonico).
Manco a dirlo, mio fratello Edoardo, tanto per non smentire la sgradevolezza di tratto che raramente l’abbandona, ha fatto ipotesi più che ingiuriose sulle sfere concentriche che circondano nel manifesto il nome della band, definendole "palle" e collegando in qualche modo tale dicitura alle nostre performances…

Io, Susanna von Strohmenger, suono la seconda chitarra ritmica.
Alle tastiere c’è Tina. Tina in verità si chiama Annunziata Scognamiglio, come si può intuire facilmente dal nome è nata a Bassano del Grappa, è emigrata giovanissima con la sua famiglia negli Stati Uniti e ha lavorato per anni a New York, come lavavetri alle Torri Gemelle. Rimasta da qualche anno disoccupata, non so perché, è tornata in Italia e si è fatta assumere, sempre in qualità di lavavetri, alle Quattro Torri di San Mariano, anche se brontola sempre che non è proprio la stessa cosa. Dimenticavo di dirvi che Tina è una piovra. E’ buddista, vive in un ashram dal lunedì al venerdì ed è appassionata di film sulla Mafia siciliana. Sostiene che parlano di lei. Secondo me, ci ha i deliri di riferimento.

La percussionista della band è Maysa Noura, una lince libanese. Quando le gira è cristiano-maronita (scassa-maroni, più che altro: è sempre in polemica con tutti), si dice musulmana se è di buon umore (vale a dire: quasi mai). E’ laureata in Scienze Naturali presso l’Accademia dei Lincei, ma è affetta dalla sindrome di Tourette, per cui dal lunedì al venerdì è sotto farmaci, che nel fine settimana sospende; dice che per suonare la tabla il Tourette aiuta. E’ sposata da anni ad un pondenco ibicenco, di nome Ramon Llull Costa i Llobera, che d’estate fa il dj a Ibiza sua patria e d’inverno insegna il catalano alle scuole differenziali.

Un bassista, la FoodFarm e una stazione paleolitica
Al basso c’è un vombato, dal suggestivo nome di Baedyn Yirrkala. E’ australiano, viene dal Golfo di Carpentaria e non è genialissimo, infatti s’intende molto con mio fratello Martino (che coppiola). Nel nostro gruppo suona il didjeridoo, ma per vivere fa il disoccupato… anche se sostiene di aver trovato un impiego presso un negozio di Gastronomia di prossima apertura, il "FoodFarm" di Pila. Evidentemente sono malfidati, al "FoodFarm" e vogliono essere sicuri che il dipendente non gli ciuli la merce: con Baedyn vanno tranquilli giacché è assolutamente vegetariano e lì, invece, hanno ogni sorta di squisitezze, e fatte tutte a mano! (del tipo salsicce secche, salami, prosciutti stagionati a Norcia e via sbavando). L’impiego glielo ha trovato la Mamma; la proprietaria della "FoodFarm" è una sua amica (credo fosse una sua ex-collega insegnante, ora in pensione), che cucina in maniera non divina: di più! Già quando facevano teatro insieme organizzava pranzi e merende a base di manicaretti da leccarsi le orecchie, tipo torte al formaggio, pane ripieno, ciaramicole, maccheroni dolci… La bottega si trova incastonata nelle dolci colline presso Perugia, su una terrazza naturale calcarea, cui si accede attraverso due lunghi viali di pini (da lì la dicitura "Il Pino", forse scarsamente creativa, ma senz’altro azzeccata). Non solo la bottega, ma anche il sito è ricco di storia: la terrazza era una stazione paleolitica, vi sono state trovate punte di frecce, selci e raschiatoi, risalenti a circa un milione di anni fa (giorno più giorno meno), ma vi sono anche una torre tra i vigneti ed una chiesa medioevale, la chiesetta di Santa Maria Maddalena del Pino. Una sera quello scemo di Martino è andato al Pino a prendere Baedyn con il malandato sidecar di cui si giova per recarsi alle funzioni del tempio (il che mi sembra assai poco dignitoso, fra l’altro) e il bizzarro veicolo, giunto nell’aia di fronte alla "Food Farm", ha esalato l’ultimo respiro, lasciandoli a piedi sotto i pini. Dato che Baedyn gli aveva raccontato che il luogo era una stazione paleolitica, si son messi giustamente lì ad aspettare il treno, con pazienza perché i treni del Paleolitico non sono, immaginavano i due pisquani, proprio all’avanguardia. Manco a dirlo la mattina dopo alle cinque erano ancora lì, gelati, schiumanti e bestemmianti. Martino poi, che è un rabbino, saprà bene quel che dice…

Alla batteria abbiamo un oritteropo, Kevin Fontecupa. Dopo Maysa, è quello che ci dà più problemi perché è un ex-tossicodipendente. E’ di origine africana, ma è stato adottato da una famiglia di Bevagna, con la quale però ha avuto sempre problemi: ha lasciato la scuola, è scappato di casa, è stato arrestato per vari furti allo scopo di procurarsi l’eroina. Adesso vive in una Casa-Famiglia a Greppolischieto, e tutti i giorni va al SERT e scala il metadone, ma ha sempre i nervi a pezzi.

martedì 13 novembre 2007

Jalal (o Charlie?). Magrebino (o siamese?)


Ciarlestrone
Inserito originariamente da susannucciauccia

Questa è la foto del pensionante magrebino di cui ho parlato in un post precedente. Qui egli (esso) si trova mollemente sdraiato su un'ottomana situata nella tenda su cui mia sorella Iris (Dio l'abbia in gloria) ha pisciato senza pietà, per manifestare il suo profondo dispregio al soggetto in questione...

giovedì 1 novembre 2007

Disturbo Post-Traumatico da Stress (ovvero: mi fanno una sega a me i Thugs)


Voi lo sapete che cos’è il PTSD?
Io non lo sapevo, l’ho scoperto per motivi scolastici. E’ l’acronimo di Post Traumatic Stress Disorder, ovvero Disturbo Post-Traumatico da Stress. Nel DSM-IV (il Manuale Statistico dei Disturbi Mentali di cui mi sembra d’avervi già parlato e sicuramente a sproposito), lo trovereste fra i cosiddetti Disturbi Affettivi, codificati in Asse 1 (dove si trovano i disturbi di stato, ossia quelli che forse, e dico forse, si possono anche guarire, ma non è detto): la depressione, la mania, i disturbi d’ansia e via folleggiando. Il PTSD è per l’appunto un disturbo d’ansia.
Perché ve ne parlo, fondamentalmente? Uno perché io sono laureanda in psicologia, come ben sapete; due perché costituisce l’argomento di una tesina che mi è stata assegnata durante un’esercitazione di Psicopatologia generale dal professor Biancamagnolia, per uno degli ultimi esami che sto faticosamente preparando intanto che elaboro la tesi… di cui vi parlerò un dì o l’altro.
Il lavoro, in collaborazione con la cattedra di Psicologia dell’Arte e della Letteratura, consiste nell’analisi di un caso letterario o cinematografico relativo ad un qualche disturbo (di Asse 1 o di Asse 2) e nella elaborazione di un tentativo di terapia (espressiva, supportiva o cognitivo-comportamentale, a seconda).
A me è stato assegnato per l’appunto il PTSD (meglio limitarsi alla sigla sennò qui facciamo notte) ed io ho scelto un romanzo di Emilio Salgari dal titolo I pirati della Malesia. La scelta è stata motivata da profonde ed ineffabili ragioni di superiore armonia: la Mamma è un’appassionata lettrice dei romanzi di Salgari (e notate bene che ho detto E’, non ERA: se li rilegge ancora benché veleggi verso la quinta decade) e in casa ce li ha quasi tutti, sicché io non ho dovuto far altro che tirare giù con grazia dallo scaffale il volume relativo ed immergermi nello studio… dopo essermi beccata una ciabattata dallo Zio Panda, che alle tre e tre quarti del mattino aveva persino la pretesa di dormire e non era entusiasta di essere stato destato da sinistri tonfi di ponderosi volumi sull’impiantito. Che mania, anche quella. Di notte si lavora così bene, ci si vede meglio…
Chi li capisce è bravo, dico io.
Comunque sia, ne I pirati della Malesia si trova la menzione di un classico caso di PTSD e financo la descrizione di una terapia… che però sospetto non susciterebbe l’entusiasmo del professor Biancamagnolia né tampoco di uno qualsiasi degli altri psichiatri dell’Ateneo.
Ve la ricordate la storia, posto che la conosciate? Sandokan, il capo delle Tigri della Malesia, ferocissima gang di pirati con base a Mompracem, Oceano Indiano (credo: a geografia sono un cane, ah-ah) e il suo fido luogotenente Yanez de Gomera salvano un indiano, tale Kammamuri, che porta seco una meravigliosa fanciulla di quindici anni (roba da pedofili conclamati) di nome Ada Corishant. La ragazzina è sbrigativamente definita "pazza" (pazza come? Schizofrenica? borderline? schizotipica? Sentiva le voci, ci aveva l’Alzheimer, i deliri parafrenici, la sindrome di Cotard…?…). La sua pazzia derivava (per chi non avesse letto il romanzo precedente, I misteri della giungla nera), dall’essere stata preda, per anni, di una setta di strangolatori indiani, i Thugs, in qualità di Vergine della Pagoda (ruolo che a mio parere avrebbe fatto incretinire chiunque); dall’aver dovuto assistere ad una serie di truci ed orride cerimonie propiziatorie per la sanguinaria Dea Kalì (che mangia il riso e caca i supplì) ed infine dal tentativo, ad opera del tristo capo dei Thugs, Suyodhana, di uccidere il di lei fidanzato, Tremal-Naik, che aveva losche mire sulla Vergine della Pagoda (in primis, quella di far in modo che l’appellativo divenisse fuori luogo). Nel corso di un drammatico confronto sotto le volte dei sotterranei di una pagoda delle Sunderbunds, Tremal-Naik, il padre di Ada e il bieco Suyodhana si affrontano e se le danno di santa comunione. Il capo dei Thugs si dà alla fuga urlando: "Andate! Ci rivedremo nella giungla!". Il padre di Ada viene massacrato, Tremal-Naik viene arrestato come Thug e deportato, Suyodhana scompare e non mi ricordo che fine fa; ma è ininfluente. Comprensibile che dopo tutta questa caterva di assalti, stragi, sangue che schizza sui muri e sacrifici di vario tipo, Ada Corishant dia fuori di matto. Come si esprime la sua follia? Di solito se ne resta immobile, inespressiva, a guardare fissa davanti a sé, se vede uomini chiede, come un disco rotto: "Dei Thugs?" e il fedele servo Kammamuri, paziente "No, padrona, non sono Thugs". Guai a nominarle il fidanzato, a suonarle sadicamente un pezzo per ramsinga o a mostrarle un laccio o un’effigie di Kalì, perché "fugge e per parecchi giorni delira".
Direi che è un caso abbastanza chiaro di Disturbo Post-traumatico da Stress, che viene così descritto nel mitico DSM-IV:

La persona è stata esposta ad un evento traumatico in cui erano presenti le seguenti caratteristiche:
- ha vissuto, ha assistito o si è confrontata con eventi che implicavano morte o minaccia di morte o gravi lesioni all’integrità fisica propria o di altri;
- la risposta comprendeva intensa paura e sentimenti di orrore;
- l’evento traumatico è persistentemente rivissuto mediante ricordi intrusivi, ricorrenti e spiacevoli, sogni ricorrenti, episodi dissociativi di flashback, allucinazioni od illusioni;
- la persona prova disagio psicologico intenso all’esposizione a fattori scatenanti che assomiglino in qualche modo all’evento traumatico;
- prova altresì ansia e preoccupazione eccessive;
- il disagio è clinicamente significativo e si accompagna a menomazioni del funzionamento sociale o in altre aree.

Il che si adatta a meraviglia al bizzarro comportamento della Vergine della Pagoda – ormai fuori servizio per cause di forza maggiore, peraltro. Il suo funzionamento sociale era, a dir poco carente; la sua conversazione assai poco variegata.
Come si cura un disturbo del genere? Dicono i testi: farmacoterapia e psicoterapia. Grazie al cavolo, glielo dicevo io gratis. Ma che tipo di psicoterapia?
Quella espressiva no di sicuro. La terapia espressiva, per gli ignoranti che non lo sapessero, si basa su un accuratissimo scavo interiore, un trapanamento tale di tutti gli anfratti dell’inconscio che se non ci hai le palle esagonali e niente di terrificante da nascondere non sopravvivi. Mi spiego meglio: se subisco un trauma particolarmente atroce, magari non voglio stare a pensarci ogni momento e quindi lo nego, lo seppellisco nelle più profonde budella della coscienza e non voglio pensarci più. Chiaro che a questo punto non gradisco che qualche pisquano me lo vada a ritirar fuori e me lo sbatta sotto il naso, perché se no vado in pezzi e non mi riappiccico più manco col Bostik. La catarsi emotiva (che schifo, sembra una brutta cosa) non è sempre utile, anzi, in taluni casi può essere financo dannosa, per esprimersi elegantemente; le esperienze traumatiche sono state scisse dal paziente (scisse vuol dire escluse, buttate via) e non è quasi mai consigliabile l’integrazione di esse nella coscienza, perché la ricostruzione del trauma sopraffà il malato e lo manda incontro ad un peggioramento clinico. E ciao.
Questo sostengono psichiatri come Krystal, West, Coburn, Lindy… ma al nostro amico Sandokan gli fa un baffo Krystal. La Tigre della Malesia adotta un altro approccio al problema del DPTS, un approccio che definire altamente espressivo è un eufemismo e che se lo propongo al professor Biancamagnolia mi piglia a calci in culo da qui all’eternità.
Il capo dei Tigrotti di Mompracem, quando il suo fido Yanez arriva all’isola con Kammamuri e con la Vergine della Pagoda, riceve un trauma (anche lui), perché Ada Corishant, oltre ad essere la cugina dell’adorata e defuntissima moglie Marianna, le assomiglia come una goccia d’acqua, anche se in bruno. Commosso dalla storia che gli narra Kammamuri, decide di liberare il suo padrone Tremal-Naik dalla galera (detto e fatto) e far tornare in sé la giovane Ada. Come cazzo avrà fatto, non lo so; trattasi di un romanzo, ma io non oso pensare a cosa gli sarebbe successo se per davvero fosse stato uno psichiatra e avesse adottato come terapia un metodo tanto balordo.

Vi aspettavo - diss'egli muovendo loro incontro. - Tutto è pronto.
- Che cosa è pronto? - chiese Tremal-Naik.
- Ciò che deve far riacquistare la ragione alla vergine della pagoda. –
Prese per mano i due amici e li condusse nell'interno di una vastissima capanna che occupava quasi l'intero recinto del forte, un tempo destinato a contenere una guarnigione e gran copia di viveri e di munizioni.Tremal-Naik e Yanez mandarono un grido di sorpresa.
L'ampia sala, in poche ore, era stata trasformata, per opera di Sandokan, di Kammamuri e dei pirati, in un'orribile caverna che a Tremal-Naik ricordava, in parte, il tempio dei thugs indiani, dove il truce Suyodhana aveva compiuto la sua spaventevole vendetta.
Una infinità di rami resinosi accesi spandevano all'intorno una luce azzurrognola, livida, spettrale. Qua e là erano stati accumulati massi enormi e rizzati tronchi d'alberi che potevano passare per colonne, adorni di mostri d'argilla rozzamente plasmati rappresentanti Visnù, il dio conservatore degli indiani, il quale ha la sua residenza nel Vaicondu o mare di latte del serpente Adissescien, ed altri dèi cateri, giganteschi geni malvagi che, divisi in cinque tribù, vanno errando per il mondo dal quale non possono uscire né meritare la beatitudine promessa agli uomini, se non dopo aver raccolto un certo numero di preghiere. Nel mezzo si ergeva una statua, pure d'argilla, orribile a vedersi.
Aveva quattro braccia, una lingua smisurata e i suoi piedi posavano sopra un cadavere. Dinanzi a quel mostro era collocata una vaschetta entro la quale nuotava un pesciolino.
- Dove siamo noi? - chiese Yanez, guardando con stupore quei mostri e quelle torce.
- In una pagoda dei thugs indiani - disse Sandokan.
- Chi ha fatto tutti questi brutti mostri?-
- Noi, fratello.
- In così poche ore?-
- Tutto si fa, quando si vuole.
- Chi è quella brutta figura che ha quattro braccia?
- Kalì, la dea dei thugs - rispose Tremal-Naik che l'aveva riconosciuta.
- Vi sembra, Tremal-Naik, che questa pagoda improvvisata somigli a quella dei thugs?
- Sì, Tigre della Malesia. Ma che cosa volete fare?
- Uditemi.-
- Vi ascoltiamo.
- Io credo che solamente una straordinaria impressione possa far riacquistare la ragione a Ada.
- Anch'io sono del tuo parere, Sandokan - disse Yanez, - e comprendo il tuo piano. Tu vuoi ripetere la scena che accadde nella pagoda dei thugs quando Tremal-Naik si presentò a Suyodhana.
- Sì, Yanez, è proprio così. Io sarò il capo dei thugs e ripeterò le parole pronunciate dal terribile uomo in quella notte fatale.
- E i thugs? - chiese Tremal-Naik.
- I thugs saranno i miei uomini - disse Sandokan. - Sono stati istruiti da Kammamuri.
- Avanti dunque.
Sandokan accostò alle labbra il fischietto d'argento ed emise un suono acuto. Subito trenta dayachi seminudi coi fianchi stretti da un laccio di fibre di rotang e con un serpente dalla testa di donna dipinto in mezzo al petto entrarono nella grande capanna schierandosi ai lati della mostruosa divinità dei Thugs.
- Perché hanno quel serpente sul petto? - chiese Yanez
- Tutti i thugs hanno un tatuaggio simile - rispose Tremal-Naik.
- Kammamuri non ha dimenticato nulla a quanto pare.
- Siete pronti? - chiese Sandokan.
- Tutti - risposero i dayachi.
- Yanez - disse allora Sandokan, - ti affido una parte importante.
- Che cosa devo fare?
- Tu che sei un bianco, devi rappresentare il padre di Ada. Guiderai gli altri pirati che fingeranno di essere i sipai indiani e farai quanto ti dice Kammamuri.
- Sta bene.
- Quando io fingerò di assalirti fuori del forte, cadrai dinanzi a Ada come morto.- Fidati di me, fratello. Ognuno al suo posto
Tremal-Naik, Yanez e Kammamuri uscirono, mentre Sandokan si fermava dinanzi alla statua della dea Kalì e i dayachi, i finti thugs, si schieravano ai suoi lati.Ad un cenno della Tigre, un pirata percosse dodici volte una specie di gong che era stato trovato in un angolo del fortino.
All'ultimo colpo la porta del capannone s'aprì e la vergine della pagoda entrò sorretta da due dayachi.
- Avanzati, vergine della pagoda - disse Sandokan con voce grave, - Suyodhana te lo comanda.
A quel nome di Suyodhana, la pazza si era arrestata, liberandosi dalle braccia dei due pirati. Il suo sguardo, improvvisamente acceso e dilatato, si fissò su Sandokan, che stava ritto in mezzo alla pagoda, poi sui dayachi che conservarono una immobilità assoluta e da ultimo sulla dea Kalì. Un fremito agitò il suo corpo e alcune rughe si disegnarono sulla nivea fronte.
- Kalì - mormorò con un accento nel quale si sentiva una vibrazione di terrore. - I thugs...
Si avanzò di alcuni passi continuando a volgere lo sguardo ora su Sandokan, ora sui pirati, ora sulla mostruosa divinità dei thugs, poi si passò due o tre volte la mano sulla fronte e parve che facesse un supremo sforzo per richiamare alla memoria una qualche orribile scena.
D'improvviso Tremal-Naik irruppe nella pagoda e le si slanciò incontro gridando:
- Ada!...
La giovinetta si era arrestata di colpo; il suo volto era diventato pallidissimo e manifestava una inesprimibile ansietà. I suoi occhi, che pareva perdessero a poco a poco quella luce strana, propria dei pazzi, si fissavano su Tremal-Naik.
- Ada!... - ripeté questi con voce straziante. - Ritorna in te!...
In quell'istante si udì una voce gridare:
- Fuoco!
Alcuni spari rimbombarono sulla soglia della pagoda ed un gruppo di uomini guidati da Yanez irruppe nell'interno, mentre i dayachi, come i thugs in quella fatale notte, fuggivano in tutte le direzioni.
Ada era rimasta immobile. Ad un tratto trasalì, poi si curvò innanzi, come se cercasse di raccogliere il rumore di una nuova scarica o qualche altra voce.Sandokan si era fermato all'estremità della pagoda e non la perdeva di vista. Comprese ciò che aspettava ancora la disgraziata?... Forse, poiché con voce tonante si mise a gridare, come aveva gridato il feroce Suyodhana:
- Andate!... Ci rivedremo nella jungla!...
Aveva appena pronunciate quelle parole che un urlo acutissimo irrompeva dalle labbra della pazza.
Fece un passo innanzi col viso sconvolto, le braccia alzate, barcollò, girò su se stessa e cadde fra le braccia di Yanez.
- Morta!... morta!... - urlò Tremal-Naik con accento disperato.
- No - disse Sandokan. - Ella è salva! (salva una sega).
Appoggiò una mano sul petto della vergine. Il cuore batteva, debolmente sì, ma batteva.
- È svenuta - diss'egli.
- Allora è salva - disse Yanez.
- Fosse vero! - esclamò Tremal-Naik che rideva e piangeva ad un tempo.
Kammamuri ritornava con dell'acqua. Sandokan spruzzò a più riprese il viso della giovinetta e attese che ella ritornasse in sé.
Passarono alcuni minuti, poi un sospiro profondo uscì dalle labbra della fanciulla.
- Sta per rinvenire - disse Sandokan.
- Devo rimanere qui? - chiese Tremal-Naik.
- No - rispose Sandokan. - Quando noi le avremo narrato ogni cosa, vi manderemo a chiamare.
L'indiano gettò un lungo sguardo sulla vergine della pagoda e uscì soffocando un singhiozzo.
- Speri, Sandokan? - chiese Yanez.
- Molto - rispose il pirata. - Domani questi due infelici potranno unirsi per sempre.
- E noi...
- Zitto, Yanez: apre gli occhi.
La giovinetta infatti ritornava in sé. Mandò un secondo sospiro più lungo del primo, poi aprì gli occhi fissandoli su Sandokan e Yanez. Il suo sguardo non era più torbido; era limpido, era lo sguardo di una donna che non era più pazza.
- Dove sono? - chiese con voce debole, cercando di alzarsi.
- Fra amici, signora - disse Sandokan.
- Ma che cos'è successo? - mormorò. - Ho sognato? Dove sono?... Chi siete voi?
- Signora - disse Sandokan, - vi ripeto che siete fra amici. Cos'è successo, mi chiedete? Vi dirò che non siete più pazza.
- Pazza?... pazza?... - esclamò la ragazza con sorpresa. - Ero pazza io? Non ho sognato, dunque? Ah... mi ricordo... È orribile... È orribile...
Uno scoppio di pianto soffocò la sua voce.
- Calmatevi, signora - disse Sandokan. - Qui non correte alcun pericolo. Suyodhana non esiste più e thugs qui non ce ne sono. Non siamo in India, ma nel Borneo.
Con uno sforzo Ada si rizzò in piedi e, afferrando strettamente le mani di Sandokan, gli disse piangendo:
- In nome di Dio, ditemi ciò che è successo e chi siete voi. Mi sembra di non comprendere più nulla.
Erano le domande che Sandokan aspettava. Allora con voce grave le narrò succintamente tutto quello che era accaduto prima in India, poi a Mompracem e da ultimo nel Borneo.
- Ora - concluse Sandokan, - se amate ancora Tremal-Naik, il coraggioso indiano che per voi ha compiuto miracoli, ad un vostro cenno egli sarà alle vostre ginocchia.
- Se lo amo!... - esclamò Ada. - Dov'è? Lasciate che lo riveda dopo una così lunga separazione!.
- Tremal-Naik!... - gridò Yanez.
L'indiano si precipitò nella pagoda e cadde ai piedi di Ada, esclamando:
- Mia!... Ancora mia!... Dimmelo ancora una volta, Ada, che sarai mia moglie!...
La giovinetta posò le mani sul capo del fidanzato:
- Sì, sarò tua moglie - diss'ella. - Mio padre mi ha promessa a te, e t'amo ancora.

Bello, però. La Mamma dice che ogni volta che lo rilegge si commuove. Strampalato, ma di grande effetto scenico. Chiaro che non è così che funziona, che il metodo – se pure ne esiste uno – per curare un tizio affetto da PTSD è molto meno suggestivo e più laborioso e consiste nella desensibilizzazione o nell’ipnoterapia. Anche con la terapia comportamentale è d'uopo andare cauti, dicono, perché tocca essere rilassati e chi ci ha il PTSD di capacità di calmarsi ce ne ha pochina.
Mi sono divertita ad immaginare il Sandokan nei panni dello psicoterapeuta che aveva in cura Ada Corishant e ad immaginare una scena più realistica – ma, chissà perché non mi è riuscito. Me lo figuro, la Tigre della Malesia, seduto in un’ottomana dorata, in una stanza riccamente addobbata con tendaggi di seta e damasco, bracieri dove bruciano incensi (alla faccia della 626), sciabole, scimitarre, pugnali appesi alle pareti (tanto per indurre un senso di sicurezza e relax nel paziente, vero), maschere tribali d’oro incrostate (che schifo) di rubini e smeraldi, con Ada Corishant distesa su un lettino riccamente intagliato di legno di tek con intarsi di agata e ametista (ma come mi vengon pensate codeste stramberie), che scava nel suo passato (Ada Corishant ebbe forse una precoce separazione dai genitori? visse forse in un ambiente connotato da ansia e nervosismo? Dice che il padre era un capitano dell’esercito inglese che l’aveva piantata in asso per andare a combattere contro gli indipendentisti indiani; ci credo che quasi quasi era meglio fare la vestale dei Thugs) e che le fa la desensibilizzazione sistematica. Che fa, prima le mostra un braccio della Dea Kalì (che come sapete ne ha quattro…otto… o sedici, boh; meglio in ogni caso non starle a tiro), la seduta dopo gliene mostra un altro, poi le suona "Era meglio morire da piccoli" col ramsinga
L’immaginazione mi tradisce.